Pensieri missionari in una sera di settembre


 15/09/2014  |     don Paolo Malerba  |    1366  |   Missione



I poveri sono sempre con noi

Quando qualcosa la desideri da tanto tempo e poi ce l’hai, ci può essere il rischio che non ne sai apprezzare più la sua importanza.

Quante volte ho sognato l’Africa, quante volte ho pensato di fare qualcosa per gli altri, quante volte quelle penetranti parole di S. Daniele Comboni mi sono ritornate come un ritornello martellante: “ Africa o Morte... ... le opere di Dio nascono e crescono ai piedi della croce”!  È proprio vero, le opere di Dio nascono e crescono ai piedi di quel dolce legno, al quale fu appeso il Salvatore del mondo.
Quanti sogni, quanti desideri, quanti progetti! Ma se quei sogni, quei progetti e quei desideri non sono anche i sogni, i desideri di Dio, se non facciamo entrare Dio nei nostri progetti, nella nostra vita siamo un fallimento già in partenza.
In quest’avventura missionaria mi accorgo che ogni giorno la mia pazienza, il mio essere prete, la mia umanità con tutte le sue sfaccettature sono messi alla prova.
Quando Gesù nel vangelo ci ricorda: “I poveri li avrete sempre con voi”, è verissimo. Ci sono anche quando tu non vorresti vedere nessuno, quando tu non hai nulla nella tua tasca da dare. Ci sono quando sei arrabbiato, quando sei malato, quando sei di corsa, ci sono sempre e ti guardano, alcune volte senza dirti una parola. Sì, una sola parola. Ti fissano con quegli occhi, molte volte bruciati dal sole.
In quest’ultimo periodo è struggente, con la grande siccità che c’è in giro. Gli animali stanno morendo, e se la pioggia non arriva in ottobre, sarà dura: anche la gente inizierà a morire.  Eppure, qui nel mercato di Marsabit, alle porte del deserto, c’è cibo, ma “relief food”, cioè cibo dato per aiuti umanitari. Il nonsenso è questo: il “relief food” non può essere venduto,  lo si  trova al mercato,  si  compra quel cibo perché non ce n’é altro. Lo si compra per la scuola, per il boarding e per i poveri. Non so se riesco a spiegarmi, il cibo che arriva per i poveri è rivenduto ed lo ricompro  per  gli stessi poveri. In quei momenti faccio un grande sforzo di pazienza per non arrabbiarmi. Qui tutto è fatto sotto gli occhi di tutti. Tutti sanno. Tutti siamo schiavi della legge della sopravvivenza, o meglio della giungla.
Al termine della giornata mi chiedo tanti perché, il senso di tutto ciò, il continuo perpetuarsi delle ingiustizie. Ma chi è veramente povero riceverà mai aiuto? Quanto è difficile capire chi è veramente povero. Mi è difficile dire di no, ma molte volte lo devo dire. Tante volte dopo aver aiutato uno che ti sembrava  genuino, rimani amareggiato, perché gli altri dicono: “Padre quello non è un vero povero, usa i soldi per mirà (coca), o per chanà (bevanda alcolica) ”. Avrestii voglia di imprecare, ma mi ritorna in mente quella frase di don Tonino Bello: “Quando fai la carità non farti tante domande, la carità non ha volto, non ha nome”.  “I poveri li avrete sempre con voi”;  è vero, i poveri ci sono e li abbiamo sempre con noi.

Non è facile amare i poveri, se io non mi riconosco povero. Quando arrivai in Africa, pensavo di non essere povero, pensavo di dover dare sempre qualcosa per stare bene con me stesso. Ora la mia logica è diversa: per aiutare i poveri bisogna farsi povero, o meglio devo riconoscere le mie povertà, accettare che non posso aiutare tutti, che non ho una banca, che non sono Dio e che sono limitato. Che fatica accettarsi limitato, ma è la via per imparare a essere liberi.
Al termine della giornata i poveri hanno la loro manyatta (quartiere), fanno parte della loro tribù, ed io? Molte volte mi ritrovo solo con il mio Dio, e gli chiedo al calare del sole: “Cosa abbiamo fatto oggi insieme?”.  Purtroppo penso che anche Lui in alcuni momenti si senta straniero come me, e che accettino Lui e me solo perché, in qualche modo, con il cristianesimo c’è anche sviluppo.
Vi ricordate quel racconto del vangelo, dove la gente vuole proclamare Gesù re, perché aveva dato loro il cibo. Quel racconto evangelico ogni giorno diventa realtà qui. Ma non è tutto qui. Quando mi sento scoraggiato, mi ricordo di tre belle figure che in un certo senso mi risollevano quando ho solo voglia di scappare: Santino, Ester e Pietro.
Santino è un anziano con l’artrosi alle mani e ai piedi, che ogni giorno, nonostante la difficoltà nel camminare, viene in chiesa alle 6.45 per la messa. Un giorno gli chiesi  perché venisse in chiesa ogni giorno e lui mi rispose: “Vengo a trovare rafiki yangu”, cioè il mio amico. L’amico di Santino è Gesù.
Ester, donna avanzatissima negli anni, che non sa una parola in Kiswahili, ma è fedele al suo Gesù come Cristo alla sua sposa, la Chiesa.
E poi Pietro, un uomo senza gambe che cammina con le mani. Un giorno venne a trovarmi e mi disse: ”Padre Mimi ninapenda msaada” (Ho bisogno di aiuto). Gli chiesi: msaada gani? (Che tipo di aiuto?). Lui mi rispose: “Padri jumapili ujao katika Kanisa kuomba Mungu kwa mtoto wangu, yeye ni hospitalini” (Padre, la prossima domenica prega il Signore per mio figlio che è in ospedale). Rimasi sbalordito, e lo ringraziai dicendogli: “Sei il primo che viene a chiedermi Chakula cha Kiroho” cioè “cibo spirituale”. Io ero pronto già a mettere la mano nella mia tasca per dargli qualcosa, ma lui non volle soldi, lui volle che si pregasse  per il figlio malato, soltanto.
Pietro, Santino ed Ester tre persone che mi rimandano agli “anawim”, ai poveri di Israele, cioè quelle persone che hanno capito che la salvezza viene da Dio. Persone che con la loro vita ci dicono come Dio è più importante di qualunque altra cosa. Qui, la gente usa dire per qualunque cosa: “Tunakushukuru Mungu! Mpango wa maisha yetu ni yake” cioè: ”Ringraziamo il Signore! Il progetto della nostra vita è Suo, Lui sa”. Per quanto noi ci sforziamo di condurre la nostra storia, Lui rimane sempre il Capitano.
Quando qualcosa la desideri da tanto tempo e poi ce l’hai, ci può essere il rischio che non ne sai apprezzare più la sua importanza.
 
  


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